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Ripetizione di somme indebitamente corrisposte al personale pubblico

Il principio, consolidato sia nella giurisprudenza di legittimità in materia di impiego pubblico privatizzato, che in quella amministrativa sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato (cfr. ex multis Cass., sez. lav., 20 febbraio 2017, n. 4323; Cons. Stato, sez. III, 9 giugno 2014, n. 2903; id. 28 ottobre 2013, n. 5173; id. 12 settembre 2013, n. 4519; id., sez. V, 30 settembre 2013, n. 4849), in forza del quale la domanda di ripetizione dell’indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte sine titulo è atto dovuto, valido in termini generali, deve essere mitigato in relazione alle peculiarità della singola fattispecie. In genere, infatti, la buona fede dell’accipiens non rileva, in quanto l’art. 2033 c.c., applicabile alla fattispecie, riguarda soltanto, sotto il profilo soggettivo, la restituzione dei frutti e degli interessi, l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede neppure specifica motivazione (sulla “autoevidenza” delle ragioni che impongono l’esercizio dell’autotutela, a protezione di interessi sensibili dell’Amministrazione, v. anche Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8), l’Amministrazione non ha alcuna discrezionale facultas agendi e, anzi, il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate configura danno erariale, con il solo temperamento costituito dalla regola per cui le modalità dello stesso non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle esigenze di vita del debitore. Ciò tuttavia, seppure condivisibile in linea astratta, non è suscettibile di applicazione in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendo assumere rilievo le connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, avuto riguardo alla natura degli importi richiesti in restituzione, alle cause dell’errore nell’erogazione, al lasso di tempo trascorso tra la stessa e l’ emanazione del provvedimento di recupero, all’entità delle somme corrisposte, riferita alle singole mensilità e nel totale determinato dalla relativa sommatoria (v. al riguardo l’indirizzo, seppur minoritario, di cui a Cons. Stato, sez. V, 13 aprile 2012, n. 2118; id. 15 ottobre 2003, n. 6291). 

È quanto affermato dalla la Sez. II del Consiglio di Stato nella sentenza n. 5014 del 1° luglio 2021.

In materia pensionistica, ricordano peraltro i Giudici, il regime derogatorio dell’art. 2033 c.c. è espressamente previsto dal legislatore (d.P.R. n. 1092 del 1973, in particolare artt. 162, comma 7, e 206, comma 1), ed è su di esso che si basa l’orientamento di favore verso il percipiente consolidato nella giurisprudenza contabile (v. decisione del 2 luglio 2012 n. 2/2012/QM delle Sezioni riunite giurisdizionali, richiamata in sez. III centrale di appello, 6 novembre 2017, n. 512).

Ha quindi aggiunto la Sezione che la Cedu, con sentenza 11 febbraio 2021, n. 4893/2013, Casarin contro Italia, ha cristallizzato le circostanze in presenza delle quali la buona fede del percipiente assume necessariamente rilievo, circoscrivendone la portata agli emolumenti aventi carattere retributivo non occasionale, e dunque corrisposti da una pubblica amministrazione in modo costante e duraturo, senza riserve esplicite. In tali casi, essendosi ingenerato il legittimo affidamento nel dipendente sulla spettanza delle somme, la loro ripetizione (benché dovuta ai sensi delle diposizioni nazionali, essendo stato indebitamente corrisposto) comporterebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione. In caso invece di voce stipendiale a carattere sporadico, quale, ad esempio, la remunerazione del lavoro straordinario, connotato ontologicamente da estemporaneità, si potrebbe “eventualmente giustificare, tenuto conto della sua natura occasionale e isolata, un errore da parte delle autorità per quanto riguarda l’importo da riconoscere agli interessati”.

Secondo la sentenza, poi, le disposizioni normative sui pagamenti automatizzati, interpretate nel senso della oggettiva provvisorietà, sì da consentire l’esercizio dello ius poenitendi da parte dell’Amministrazione a prescindere dalla situazione soggettiva del percettore, sono compatibili con l’art. 1 del Protocollo alla Convenzione, per la lettura datane con riferimento alla materia de qua dalla Corte EDU. Ridette disposizioni si risolvono infatti nella apposizione di una generalizzata riserva di ripetizione, come tale legittimante sempre la sua concreta effettuazione, purché nei limiti temporali prestabiliti. Proprio la previsione di tali limiti temporali costituisce il ricercato punto di equilibrio fra le esigenze di certezza delle proprie risorse da parte del dipendente pubblico e quelle di presidio del procedimento meccanizzato, connotato da maggiore celerità operativa, da parte dell’Amministrazione. Il legislatore, cioè, facendosi carico delle conseguenze giuridiche dell’affidamento della gestione delle erogazioni stipendiali a sistemi automatizzati, in qualche modo anticipando i futuri e particolarmente attuali dibattiti sull’intelligenza artificiale e le conseguenze in termini di responsabilità di eventuali distorsioni applicative ascrivibili alla macchina, ha cautelativamente disciplinato le conseguenze delle correzioni dei relativi esiti, onerando l’operatore, tuttavia, di effettuare i controlli entro un termine ragionevole fissato in un anno.