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Cartella di pagamento ed ingiunzione impugnabili solo per vizi formali

La cartella di pagamento emessa dall’Agente della Riscossione e l’ingiunzione fiscale possono essere impugnate solo per vizi propri dell’atto e non allo scopo di contestare la pretesa tributaria. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 883/2022, in riferimento a quanto previsto dall’art. 19 D.Lgs. 546/1992.

In primo luogo, i Supremi Giudici, richiamando un precedente orientamento (Sent. S.U. 16293/2007) hanno ricordato che in tema di contenzioso tributario, sono qualificabili come avvisi di accertamento o di liquidazione, impugnabili ai sensi dell’art. 19 citato, tutti gli atti con cui un ente pubblico comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, anche qualora tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento, ma con un invito bonario a versare quanto dovuto. 

Ne consegue che il ricorso avverso la cartella esattoriale o l’ingiunzione, emessi successivamente in relazione all’avviso non opposto, risulta essere inammissibile ai sensi del citato art. 19, a meno che tali atti non siano impugnati per vizi propri. 
Infatti, spiega la Cassazione: “La correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile, per questi ultimi, un efficace esercizio del diritto di difesa (Cass. S.U. 16412/07). La cartella esattoriale di pagamento, quando faccia seguito ad un avviso di accertamento divenuto definitivo, si esaurisce in un’intimazione di pagamento della somma dovuta in base all’avviso e non integra un nuovo ed autonomo atto impositivo. Il riflesso processuale di tale impostazione logico-giuridica si può riassumere nel principio di sindacabilità limitata della cartella di pagamento avente il soprarichiamato requisito, l’essere cioè una automatica propagazione degli effetti accertativi di un atto impositivo diventato definitivo per omessa impugnazione”. 

Pertanto, il principio esposto dai giudici di legittimità porta a concludere che, gli atti di riscossione coattiva possono essere contestati solo per vizi propri e non per eccezioni di merito attinenti all’atto di accertamento dal quale è scaturito il debito. In altre parole, una volta che l’accertamento è divenuto definitivo (perché non impugnato entro il termine o per sentenza irrevocabile), gli eventuali vizi dell’atto di accertamento non potranno più essere fatti valere in sede di impugnazione della cartella di pagamento o dell’ingiunzione.

Fa eccezione, lo specifica la Corte, il caso in cui il contribuente sia venuto a conoscenza della pretesa impositiva solo con la notificazione della cartella predetta. Circostanza, a nostro avviso, remota nel caso degli accertamenti dei Comuni, posto che – generalmente – un ente procede alla riscossione coattiva solo qualora abbia certezza della notifica dell’atto presupposto.

A nostro avviso invece, il Comune potrebbe considerare di rivedere l’atto di accertamento definitivo applicando l’esercizio dell’autotutela qualora, a seguito di emissione di un atto di riscossione coattiva, il contribuente dimostrasse che vi è stato un errore sostanziale alla base dell’emissione dell’accertamento stesso (ad es. perché gli immobili attribuiti ai fini IMU non sono mai stati da lui posseduti). Resta fermo che un simile atteggiamento ha comunque carattere eccezionale ed assolutamente discrezionale, volto ad evitare situazioni di pretesa iniqua nei confronti del contribuente nonostante egli sia rimasto inerte per tutto il periodo (60 giorni dalla notifica) entro il quale avrebbe dovuto attivarsi per contestare l’atto di accertamento o promuovere il ricorso.