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Va motivata la scelta dell’ente di negare il prolungamento del periodo di comporto

Con la recente sentenza n. 22775 del 27 luglio 2023, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ricordato che l’art. 36 del CCNL del comparto Funzioni Locali del 21 maggio 2018 (ma il nuovo CCNL siglato il 16 novembre 2022 ricalca sul punto il contenuto di quello precedente), dopo aver limitato a diciotto mesi il periodo di conservazione del posto di lavoro concesso al dipendente in malattia, al secondo comma aggiunge che «superato il periodo previsto dal comma 1, al dipendente che ne faccia richiesta può essere concesso di assentarsi per un ulteriore periodo di 18 mesi in casi particolarmente gravi» ed al terzo comma precisa che la concessione dell’ulteriore periodo di assenza deve essere preceduta dall’accertamento delle condizioni di salute del dipendente, finalizzato ad escludere che lo stesso si trovi in una situazione di assoluta e permanente inidoneità psicofisica a svolgere qualsiasi lavoro, situazione che rende applicabile il comma 5 e legittima la risoluzione del rapporto.

Il prolungamento del periodo di comporto è subordinato, dunque, oltre che alla domanda dell’interessato (in questo caso presentata il 9 novembre 2018 e reiterata in date 6 febbraio e 13 maggio 2019), all’accertamento delle ulteriori condizioni della gravità del caso e della permanente idoneità al lavoro, in presenza delle quali, peraltro, non sorge il diritto soggettivo alla protrazione dell’assenza, perché l’amministrazione pubblica non è obbligata ad accogliere l’istanza, ma solo a provvedere sulla stessa e ad attivare il procedimento disciplinato dal comma 3 (cfr. Cass. n. 21192/2018 inerente all’interpretazione dell’analoga disciplina dettata dall’art. 21 del CCNL 1995 per il personale del comparto autonomie locali).

All’esito dell’accertamento l’ente è chiamato ad effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria, degli opposti interessi che vengono in rilievo e, quindi, ad operare il bilanciamento fra l’indubbio interesse del dipendente al prolungamento del periodo di conservazione del posto di lavoro e le esigenze organizzative dell’amministrazione, che potrebbero essere pregiudicate dal protrarsi dell’assenza, specie nei casi in cui quest’ultima, in ragione della posizione ricoperta dal dipendente e della complessiva dotazione di personale disponibile, finirebbe per incidere sulla capacità dell’ente di provvedere alla cura degli interessi pubblici ed all’erogazione dei servizi di sua competenza.

Si tratta, dunque, di una valutazione discrezionale che nell’impiego pubblico contrattualizzato, ove vengono in rilievo anche interessi legittimi di diritto privato (cfr. fra le tante più recenti Cass. n. 5546/2020), va espressa tenendo conto dei principi di imparzialità, trasparenza, efficienza ed economicità di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo dell’art. 97, comma 2, Cost., nonché dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., i quali in materia contrattuale enunciano un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., ed impongono a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra (cfr. Cass. S.U. n. 28056/2008).

Per i Giudici, pertanto, ovvio corollario del principio enunciato quanto ai criteri che ispirano la valutazione discrezionale è che di quella valutazione l’amministrazione deve dare conto allorquando, come nella fattispecie, pervenga alla decisione di rigettare l’istanza e di intimare il licenziamento.

L’obbligo della motivazione, si legge nella sentenza, non discende in tal caso dall’art. 3 della legge n. 241/1990, applicabile agli atti amministrativi e non a quelli di gestione del rapporto di lavoro privatizzato, bensì si fonda, oltre che sulla necessità di assicurare il rispetto dei principi sopra richiamati, che implicano l’esteriorizzazione delle ragioni della scelta, anche sul novellato testo dell’art. 2 della legge n. 604/1996, che impone al datore di lavoro di specificare con la comunicazione del licenziamento i motivi che l’anno determinato.

Questa Corte, affermata l’applicabilità del richiamato art. 2 anche al licenziamento intimato ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., ha precisato che il contenuto motivazionale dell’atto di recesso si modella diversamente a seconda del tipo di comporto che viene in rilievo e deve essere tale da evidenziare la ragioni del superamento in relazione alla disciplina contrattuale applicabile (cfr. Cass. n. 21042/2018 e Cass. n. 5752/2019).

Il principio, affermato per il rapporto alle dipendenze di privati ma estensibile anche all’impiego pubblico contrattualizzato, implica che ogniqualvolta la contrattazione collettiva preveda un periodo minimo di conservazione ma ne consenta anche il prolungamento in presenza di determinate condizioni, il motivo del recesso è dato, non solo dal compimento del periodo minimo, ma anche dalla ritenuta insussistenza dei presupposti per l’estensione, che va, quindi, esplicitata e comunicata al prestatore.