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La sanzione economica comminata al dipendente in caso di assenza alla visita fiscale non ha carattere disciplinare

La trattenuta sulla busta paga del dipendente risultato assente senza giustificato motivo in occasione della visita fiscale non ha carattere disciplinare.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 33180 del 10 novembre 2021.

Ciò è reso evidente, afferma la Cassazione, non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell’ambito del rapporto di lavoro (art. 21, co. 13, del CCNL del comparto delle regioni ed autonomie locali del 6.7.1995, secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall’indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all’amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di “gestione” del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod. in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l’intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l’ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all’interno del rapporto previdenziale e quindi dell’I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest’ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.

I Giudici hanno peraltro anche osservato che il tentativo della dipendente di comunicare all’ente quanto sopravvenuto per via telefonica (come da quella che la dipendente medesima afferma essere una prassi aziendale) senza ricevere risposta, non è di per sé sufficiente a garantire il rispetto degli obblighi comunicativi ad essa imposti dal già citato CCNL, in quanto, anche ad ammettere quella prassi, il comportamento del lavoratore nell’adempiere al proprio obbligo comunicativo va integrato con ogni variante che si renda necessaria nel caso concreto, secondo il principio di correttezza ed è dunque palese come risulti manifestamente insufficiente, per chi sia dipendente di un Comune, addurre l’impossibilità comunicativa per il solo fatto di non avere ricevuto risposta ad alcune telefonate, avendo il medesimo a disposizione una tale quantità di mezzi, più o meno formali, per superare l’ostacolo (a parte l’ipotesi del telegramma, basti pensare alla possibilità di far “sbloccare” uno dei telefoni da raggiungere attraverso la collaborazione di un qualche collega etc.) da non potersi in alcun modo neanche ipotizzare che, in giornate lavorative, il Comune ed i suoi uffici non potessero essere in qualche modo contattati.