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Sempre nulli gli atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico adottati in violazione della disciplina dettata dal CCNL

Nell’impiego pubblico contrattualizzato, ove difettino specifiche disposizioni derogatorie della regola generale, deve essere escluso in radice il potere unilaterale del datore di lavoro di discostarsi, nella disciplina del singolo rapporto di impiego, dall’assetto definito in sede di contrattazione collettiva, perché il superamento dello statuto pubblicistico è stato realizzato dal legislatore ordinario attraverso un «equilibrato dosaggio di fonti regolatrici» (Corte Cost. n. 313/1996 e Corte Cost. n. 309/1997) che si incentra sul ruolo centrale della contrattazione collettiva, a sua volta oggetto di una specifica disciplina finalizzata a garantire l’attuazione dei principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost., di modo che «l’osservanza, da parte delle amministrazioni, degli obblighi assunti con i contratti collettivi rappresenta il conseguente e non irragionevole esito dell’intera procedura di contrattazione, la quale prende le mosse dalla determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che interessa a sua volta molteplici profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità finanziaria» ( Corte Cost. n. 309/1997).

Il ruolo centrale della contrattazione collettiva è stato da tempo valorizzato dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali sullo stesso hanno fondato il principio secondo cui l’atto di deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo è « affetto da nullità, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-septies (l’ordinamento esclude che l’amministrazione possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva) » ( Cass. S. U. n. 21744/2009).

Si è quindi consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui l’adozione da parte della P.A. di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, con il quale venga attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, giacché la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla volontà delle parti collettive (cfr. fra le tante Cass. n. 17226/2020; Cass. n. 21166/2019; Cass. n. 15902/2018; Cass. n. 25018/2017; Cass. 16088/2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Si è anche evidenziato che il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e che, per la particolare natura del rapporto nell’impiego pubblico fra contratto collettivo ed individuale, la restituzione non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore medesimo.

Quest’ultimo, pur non potendo esercitare poteri autoritativi, è tenuto ad assicurare il rispetto della legge, e quindi del contratto collettivo che dalla stessa mutua la sua particolare efficacia generalizzata, sicché non può dare esecuzione ad atti nulli e deve sottrarsi, anche unilateralmente, all’adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo.

Si tratta di principi che valgono anche per il rapporto dirigenziale in quanto già l’art. 24 del d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, stabiliva che «la retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, prevedendo che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità» ed escludeva, pertanto, che il trattamento accessorio potesse essere liberamente quantificato al momento della sottoscrizione del contratto individuale.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella recente ordinanza n. 11645 del 4 maggio 2021.