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Recupero indebito oggettivo: posta questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2033 cod. civ.

Con ordinanza interlocutoria n. 40004 del 14 dicembre 2021, la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte Costituzionale (ritenendone la rilevanza e la non manifesta infondatezza) la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2033 cod. civ., per contrarietà agli artt. 11 e 117 Cost., in rapporto all’articolo 1 del Protocollo 1 alla CEDU, nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività dell’attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni.

Secondo la Suprema Corte, infatti, l’articolo 2033 cod.civ. prende specificamente in considerazione lo stato psicologico dell’accípiens e limita la rilevanza della sua buona fede alla decorrenza dei frutti e degli interessi. La buona fede, dunque, non incide sulle obbligazioni di restituzione, ma unicamente sul tempo di maturazione delle obbligazioni accessorie.

Accogliere un’interpretazione secondo la quale la buona fede dell’accipiens osti alla ripetizione dell’indebito determinerebbe un insolubile contrasto con il dato letterale.

Soprattutto, occorre considerare che, secondo l’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, non è la semplice buona fede del ricevente ad impedire alla pubblica amministrazione di ripetere l’indebito retributivo, ma il «legittimo affidamento» del dipendente alla definitività della attribuzione, fondato sul concorso di plurime circostanze di fatto: pagamento effettuato dalla pubblica amministrazione spontaneamente ovvero su domanda del dipendente in buona fede; apparenza del titolo del pagamento; durata nel tempo dei versamenti; assenza della riserva di ripetizione; buona fede del ricevente. Inoltre — (avendo la Corte EDU riconosciuto la legittimità dell’azione di recupero e la sua rispondenza ad uno scopo parimenti legittimo) — la violazione del diritto dell’individuo ricorre solo in caso di esito negativo del test di proporzionalità sotteso alla norma convenzionale; a sua volta in tale test rilevano ulteriormente: l’ esclusiva imputabilità alle autorità pubbliche dell’errore del pagamento, il pagamento delle retribuzioni indebite quale corrispettivo dell’attività lavorativa ordinaria, la situazione economica dell’accipiens al momento della condanna al rimborso (si vedano i punti 72 e 73 della sentenza della CORTE EDU in considerazione).

In sostanza, la ricezione nell’ordinamento interno dei principi sottesi all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU sarebbe l’esito non di una diversa interpretazione dell’articolo 2033 cod. civ. ma, piuttosto, di una vera e propria disapplicazione della disposizione codicistica in favore di una norma diversa — sia quanto all’ambito soggettivo, relativo ai soli pagamenti provenienti dalla pubblica amministrazione, sia nel disposto oggettivo — corrispondente all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU.

Ma la disapplicazione del diritto interno non è consentita in relazione alle disposizioni della CEDU, sprovviste, diversamente dalle norme dell’Unione Europa, di efficacia diretta nell’ordinamento nazionale.

Questa Corte — in linea con la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. sent. n. 80 del 2011) — ha costantemente affermato che nel sistema normativo successivo all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non ha modificato la propria posizione nel sistema delle fonti. Il rinvio operato dall’art. 6, par. 3 del Trattato UE alla convenzione (con la qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come principi generali del diritto dell’Unione) non consente al giudice nazionale nelle materie estranee al diritto dell’Unione europea ed in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (per tutte, Cass. sez. VI 04/12/2013, n.27102).

La stessa Corte di Giustizia ha chiarito (CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10 KAMBERAJ, punti 62 e 63) che l’art. 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri; pertanto, il rinvio operato dal suddetto articolo alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa.

Per le esposte ragioni questa Corte ritiene di non poter accogliere l’interpretazione dell’articolo 2033 cod. civ. invocata in memoria dalla ricorrente incidentale in senso conforme alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. II, 1 luglio 2021 nr. 5014, che si è direttamente conformata ai principi declinati dal giudice della CEDU nella sentenza del febbraio 2021, ritenendo possibile anche la disapplicazione ex officio della norma interna (come nell’ipotesi di contrasto delle norme interne con il diritto eurounitario) collidente con quella convenzionale, il che – come sopra detto – non è consentito.

Neppure possono applicarsi all’indebito retributivo nel pubblico impiego privatizzato i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte dei Conti; la regolamentazione della ripetizione dell’indebito pensionistico è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile, sicché il suddetto art. 2033 cod. civ. non si applica al sottosistema delle pensioni, sia private che pubbliche (Corte dei Conti sez. riun. 2 luglio 2012 nr.2).

L’impossibilità di recepire i principi enunciati dalla Corte EDU attraverso un’operazione genuinamente interpretativa dell’articolo 2033 cod.civ. dà perciò luogo all’incidente di costituzionalità dello stesso articolo per violazione degli articoli 11 e 117 Cost., in rapporto all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU, nella parte in cui, in caso retribuzioni erogate indebitamente da un ente pubblico e di legittimo affidamento, da parte del dipendente pubblico percipiente, nella definitività della attribuzione, consente un’ingerenza non proporzionata nel diritto dell’individuo al rispetto dei suoi beni (nel senso di cui all’articolo 1 del protocollo 1 alla CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU).