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L’interposizione fittizia di manodopera da parte di una società in house non determina la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultima

Nel ribadire le condizioni che devono sussistere affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell’art. 29, comma 1, del D.Lgs. n. 276 del 2003, con la recente ordinanza n. 3768/2022 la Cassazione ha affermato che le disposizioni contenute nel citato art. 29 non possono ritenersi applicabili in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle cd. società in house, sicché, anche laddove si configuri un’ipotesi di intermediazione vietata di manodopera, i lavoratori occupati in violazione del divieto in parola non possono passare alle dipendenze della società appaltante che abbia effettivamente utilizzato le prestazioni lavorative degli stessi.

In proposito i Giudici di legittimità hanno infatti evidenziato che, sebbene il capitale pubblico non muti, in via di principio, la natura di soggetto privato delle società a totale partecipazione pubblica le quali, quindi, restano assoggettate al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, ciò avviene salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. Cass. S.U. n. 24591/2016 e con riferimento ai rapporti di lavoro Cass. S.U. n. 7759/2017).

E nel caso di specie la disposizione di segno contrario è rappresentata dall’art. 18 del D.L. n. 112/2008 (si v. oggi l’art. 19 del D.Lgs. n. 175/2016), convertito con modificazioni dalla legge n. 133/2008 che, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 102/2009 di conversione del D.L. n. 78/2009, al comma 1 estende alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali i criteri stabiliti in tema di reclutamento del personale dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, ed al comma 2 prescrive alle «altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo» di adottare «con propri provvedimenti criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità», prevedendo, inoltre, al comma 2 bis che «le disposizioni che stabiliscono, a carico delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n.1651, e successive modificazioni, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 5 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311».

La violazione di tali disposizioni, di carattere imperativo, comporta che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali previste dal c. 1 e di quelle selettive, richiamate nel c. 2, impedisce la conversione dei rapporti dedotti in giudizio in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (Cass. n. 3621/2018, Cass. n. 2137818).

Per altro, conclude l’ordinanza, deve anche rilevarsi che il divieto di assunzione (o “conversione” di contratti di lavoro a termine nulli) nei confronti di società a totale partecipazione pubblica (in house) deriva dalle norme costituzionali ed in particolare dall’art. 97 Cost., come più volte sottolineato dalla Corte Costituzionale (C. Cost. n. 29 2006, e già C. Cost. n. 46693).