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Limiti operativi all’esercizio, in forma non professionale, dell’attività agricola da parte del dipendente pubblico

Con l’ordinanza cautelare n. 2120 del 25 maggio 2023, il Consiglio di Stato ha evidenziato che l’esercizio dell’attività agricola in forma non professionale non appare incompatibile con il principio di esclusività del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tanto vero che già l’art. 60 d.P.R. n. 3/1957 (recante il testo unico degli impiegati civili dello Stato) ed oggi l’art.53 d.lgs. n. 165/2001 vietano espressamente ai pubblici impiegati l’esercizio dell’industria e del commercio, ma non anche l’esercizio dell’attività agricola.

La ratio di tale esclusione dal nucleo delle attività incompatibili, afferma il Collegio, va ricercata nel contemperamento operato dal legislatore tra il principio di esclusività del rapporto di lavoro del pubblico dipendente con le esigenze, coessenziali alla titolarità di un fondo rustico e peraltro imposte dalla disciplina europea sugli aiuti agli agricoltori (cosidetta “condizionalità”), di prendersi cura dello stesso ( anche a mezzo di terzi incaricati) osservando le ordinarie pratiche agronomiche e di trarne un reddito agrario anche attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli.

Di conseguenza, l’apertura di una partita IVA da parte del dipendente pubblico, se strettamente funzionale all’esercizio non professionale dell’attività agricola per il corretto adempimento delle facoltà e degli oneri connessi alla proprietà di un fondo rustico, non può di per sé ritenersi vietata, purché detto esercizio resti limitato e strettamente correlato, quale sua necessaria e ancillare proiezione, al corrispondente assetto dominicale.

Una diversa interpretazione, precisano i Giudici, non sarebbe compatibile con il nucleo essenziale delle prerogative dominicali ed anzi recherebbe vulnus all’effettività del diritto fondamentale di proprietà ( art. 42, 2° comma, Cost.) anche nella sua più lata interpretazione che ne ha dato la Corte EDU ( in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale n.1 alla Convenzione), perché si tradurrebbe nella imposizione, peraltro senza copertura normativa, di limitazioni ingiustificate all’uso ed al godimento di un bene immobile ed alle sue potenzialità reddituali, in insanabile contrasto, anche sul piano della logica e della ragionevolezza, con ciò che un pubblico dipendente potrebbe normalmente fare con beni immobiliari di diversa natura ( ad es. concessione in locazione di un appartamento).