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Limiti alla riapertura del procedimento disciplinare al fine di adeguarne le determinazioni agli esiti del giudicato penale sopravvenuto

Con la recente sentenza n. 25901 del 23 settembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione ha rammentato che in materia di rapporto di lavoro costituisce principio del tutto consolidato quello per cui il potere disciplinare non consenta di essere reiterato, per il medesimo fatto, una volta già esercitato mediante applicazione di una sanzione (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26815) e ciò anche se la prima sanzione sia minore a quella poi risultata applicabile sulla base di ulteriori circostanze, anche se sopravvenute (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657, con riferimento proprio al sopravvenire di condanna penale), con la sola eccezione dell’annullamento della prima sanzione per ragioni procedurali o formali (Cass. 30 luglio 2019, n. 20519; Cass. 19 marzo 2013, n. 6773) e sempre, va precisato, che non siano maturate altre decadenze a carico della parte datoriale. La regola, per quanto formatosi in ambito di lavoro privato, non può non estendersi al settore del pubblico impiego privatizzato, in quanto soggetto alla medesima disciplina di fondo propria del contratto di lavoro (art. 2, co. 2, d.Igs. 165/2001) e comunque per il risalire di tale assetto ad evidenti ragioni di certezza nei rapporti giuridici.

Peraltro, ricordano i Giudici, nonostante l’autonomizzazione del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, il legislatore del diritto del lavoro privatizzato ha previsto alcuni casi in cui l’eventuale conclusione del processo penale in senso difforme rispetto alle determinazioni assunte in sede disciplinare è destinata a determinare effetti anche su quest’ultimo piano, sebbene formalmente già definito.

Ciò accade, a favore dell’incolpato, qualora il processo penale si chiuda con sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso (art. 55-ter, co.2 d. Igs. 165/2001), ipotesi in cui, su istanza dell’interessato, il procedimento disciplinare va riaperto al fine di adeguarne gli esiti alla sopravvenienza giudiziale, dovendosi a quel punto tenere conto altresì degli effetti di giudicato propri della pronuncia penale. L’azione disciplinare che la P.A. decida di proseguire nonostante la pendenza del processo penale resta quindi fisiologicamente condizionata, negli esiti, dalla definizione di quest’ultimo in senso favorevole all’incolpato. Di converso, se il procedimento disciplinare, pur iniziato, non viene definito per archiviazione, esso va ripreso allorquando sopravvenga sentenza penale irrevocabile di condanna per i medesimi fatti; analogamente il procedimento disciplinare va riaperto, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa (art. 55-ter, co.3 d. Igs. 165/2001).

Tutto ciò è senza dubbio effetto della diversa posizione della P.A. nell’ordinamento e del principio di buon andamento che ne governa l’operato (art. 97 Cost.), declinato dal legislatore, nelle norme sopra citate, in senso parzialmente divergente dalla regola del ne bis in idem, al fine di consentire l’adeguamento dell’assetto negoziale, in melius o in peius, nei casi previsti, alla statuizione assunta in sede giudiziaria penale e ciò in una sorta di raccordo finale tra autonomia disciplinare e interconnessione con le decisioni penali, rispetto ad un settore la cui funzione pubblica non tollera eccessivi scostamenti rispetto alla piena valutazione delle ricadute sul rapporto dei fatti muniti di rilevanza penalistica.

La sopra menzionata portata generale del principio del ne bis in idem e la previsione espressa e specifica delle ipotesi divergenti rispetto ad esso escludono altresì che le deroghe possano essere oggetto di interpretazione estensiva o di applicazione oltre i casi da esse previsti (art. 14 disp. prel. c.c.).

Pertanto, conclude la Cassazione, non può ritenersi ammessa l’attivazione di un secondo procedimento disciplinare, per lo stesso fatto, se non nei casi espressamente ammessi dall’art. 55-ter. D’altra parte, l’ipotesi dell’archiviazione in sede disciplinare, che non osta alla riapertura del procedimento se sopravvenga condanna penale irrevocabile, esprime un caso in cui non vi è stato esercizio di potere disciplinare, perché il relativo procedimento è stato aperto, ma poi chiuso senza applicazione di sanzione; esso quindi è ben diverso dal caso in cui il potere disciplinare sia stato pienamente esercitato con l’applicazione della sanzione e se ne pretenda la reiterazione, per il medesimo fatto ma sul presupposto anche dell’intervenuta condanna giudiziale, per il solo sopravvenire della pronuncia penale.

Analogamente, la previsione della riapertura del procedimento disciplinare chiuso con sanzione conservativa, nel caso di fatti tali da comportare il licenziamento accertati in sede penale, è ipotesi espressamente regolata proprio per la sua divergenza, a tutela dell’interesse pubblico, rispetto al principio generale di consumazione del potere disciplinare e comunque si fonda su vicenda in cui la rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore è stata già accertata nel primo procedimento e si tratta soltanto di rimodulare eventualmente la sanzione in ragione del sopravvenuto accertamento penale.