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La Cassazione sconfessa sé stessa: non integra il reato di abuso d’ufficio la sola accertata violazione dell’art. 97 Cost.

Contrariamente a quanto affermato poco tempo fa dalla Prima Sezione Penale nella sentenza n. 2080 del 18 gennaio 2022 (udienza del 06/12/2021), la Sesta Sezione Penale della Cassazione è giunta recentemente alla conclusione che il tenore letterale della nuova norma incriminatrice (art. 323 cod. pen) e il significato che alla stessa va attribuito alla luce dei lavori parlamentari, idonei a illustrare quale sia stata la reale voluntas legis, consentono di affermare che con la riforma in argomento si sia voluto escludere la possibilità di ritenere integrato il reato di abuso di ufficio sulla base della sola accertata violazione dell’art. 97 Cost. Ed infatti, «risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.» (così Corte cost., sent. n. 8 del 2022).

È quanto si legge nella sentenza n. 13136 del 6 aprile 2022.

Come noto, ricordano i Giudici, le novità introdotte dalla riforma sono tre.
Fermi restando l’immutato riferimento all’elemento psicologico del dolo intenzionale e l’immodificato richiamo alla fattispecie dell’abuso di ufficio per violazione, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti (ipotesi di reato che non è variata nei suoi elementi costitutivi), il delitto di abuso di ufficio per violazione di legge, in conseguenza delle indicate modifiche introdotte nell’art. 323 cod. pen., è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell’agente pubblico abbia avuto ad oggetto “specifiche regole di condotta” e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate “da norme di legge o da atti aventi forza di legge”, dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte subprimaria; e, in ogni caso, a condizione che le regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all’agente, restando perciò esclusa l’applicabilità della norma incriminatrice laddove quelle regole di condotta rispondano in concreto, anche in misura marginale, all’esercizio di un potere discrezionale (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 8057 del 28/01/2021, Asole, Rv. 280965; Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, Rv. 280296).

Alla luce di tali premesse va dunque considerato insufficiente, ai fini dell’integrazione degli estremi del reato, il richiamo alle regole di condotta genericamente indicate nell’art. 97 Cost. a proposito dei principi di buona amministrazione e di imparzialità che devono governare l’operato dei pubblici agenti.